domenica, Dicembre 22, 2024
Cultura

The legend of Tarzan, l’accusa pop al colonialismo

La Disney aveva da poco licenziato il progetto di un remake in live action del Libro della Giungla, quando Tarzan, dal profondo dell’Africa nera, ha gridato allo scandalo, scandalizzato dalla ragazzata di Mowgli. Ed è venuto fuori The legend of Tarzan, un sequel alla storia arcinota del lord inglese allevato dalle scimmie e paladino della causa della Natura contro i suoi invasori.

 

Tarzan, malgrado la sua ferrea volontà  di scrollarsi di dosso il mito della sua vita precedente, viene assoldato dal governo inglese per una missione diplomatica nel Congo belga, ignaro delle manovre di un odioso luogotenente del re del Belgio, tale Leon Blum, tra l’altro storicamente esistito. Così Lord Greystoke si ritrova catapultato nuovamente nella giungla, affiancato da un emissario del governo americano intenzionato ad indagare sulle reali condizioni del popolo congolese, mentre piano piano l’anima selvaggia a lungo sopita riaffiora, tra un salto fra gli alberi e l’altro.

Indubbiamente, il film ha i suoi pregi. La critica al colonialismo europeo, con il suo carico di soprusi e reticenze internazionali, è sempre un tema importante da trattare, seppur attraverso un opera mainstream che ha tra i suoi obiettivi principali incassare più cash possibile. Eppure la dimensione storica degli eventi mai è stata così puntuale e determinata, nonostante la limitatezza delle location, dato che il film è stato girato per la maggior parte in Inghilterra, riservando pochi esterni al Gambia.

Il cast poi è una bellezza. Innanzitutto i protagonisti. Un Alexander Skarsgard in forma fisica da urlo, che ha ricevuto complimenti unanimi, che abbandona i panni del vampiro di True Blood per calarsi nel ruolo che forse gli aprirà  del cinema blockbuster. E brava è anche Margot Robbie, che presto rivedremo nel ruolo di spalla del Joker in Suicide Squad, anche se penalizzata dalla riproposizione canonica della damigella in pericolo. I comprimari sono di tutto rispetto, da un Samuel L. Jackson ironico e pericoloso al contempo, un po’ acciaccato dai suoi sessant’anni, e dal figlio dell’Africa Djimon Hounsou, che impersona validamente un capo tribale ossessionato dal desiderio di vendetta. Un capitolo a parte spetta alla performance di Cristoph Waltz, che pure è bravo, preciso fino al parossismo nei piccoli tic del suo personaggio, anche se notevolmente ingessato nel suo ruolo, che invece poteva essere più ricco di sfaccettature, data la sua reale esistenza storica.

In un film che si regge sulla spettacolarità , le pecche più gravi riguardano il comparto tecnico. La fotografia, ricalcata sugli episodi finali di Harry Potter, come se David Yates ci volesse ricordare il suo campino nella fortunata saga, di grande impatto nei molti di massima esposizione luminosa, viene umiliata fortemente dalle scene notturne, che sono in maggioranza nel minutaggio, rendendo a volte la comprensione delle scene un po’ ostiche. Con il progresso raggiunto dal motion capture, molti hanno giudicato, compreso l’estensore di questa recensione, anacronistico il CGI con cui sono stati costruiti gli animali, anche se l’espressività  dei gorilla è salva.

Il complesso del film è tutto sommato fluido e coerente, e non guasta senz’altro assistere ad una visita sulla celluloide nel continente nero, visto lo strisciante razzismo che sta conquistando gli animi italici. Se poi i vostri marmocchietti cercano un film estivo da godersi, senza eccessi e senza fronzoli, avete trovato il film adatto.
Enrico Frasca
 

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