Escobar: vola, Colomba bianca, vola
Arriva nelle sale italiane con due anni di ritardo Paradise Lost, opera prima del giovane regista italiano Andrea Di Stefano ribattezzata dalla distribuzione italiana semplicemente Escobar. Una scelta che ha del discutibile, dato che il titolo originale si prestava ottimamente a descrivere il film, che è la narrazione di un sogno infranto, della perdita dell’innocenza di un ragazzo, prima di tutto, e la descrizione di un’importante uomo del nostro tempo, in seconda battuta.
Siamo sul finire degli anni ottanta. Nick, un giovane canadese mite e appassionato di surf, approda in Colombia con il desiderio di poter aprire un’attività sulla spiaggia con suo fratello. Dopo poco tempo conosce Maria, un’affascinante ragazza dedita al volontariato per conto terzi, di cui si innamora come una pera cotta. Ufficializzata la liaison, Maria presenta il suo fresco ragazzo al suo adorato zio. Peccato che lo zio sia un certo tipo, alquanto sopra le righe, che coinvolgerà il ragazzo negli affari di famiglia, tipo nascondere diamanti o uccidere testimoni scomodi. Del resto, già Tony Montana, da brutto ceffo qual’era, rabbrividiva al solo pensiero di cosa era capace di fare un colombiano.
Il ritratto che ne esce fuori dal biopic non si presta facilmente ad ambiguità . La presa di posizione dell’autore è evidentemente tesa alla stigmatizzazione del personaggio, sebbene in una maniera più sottile e raffinata di film quali il recente Black Mass, dove il malefico Whitey Bulger veniva ritratto come effettivamente era : un mostro psicopatico e imprevedibile. Qui è tutt’altra storia. La brocca del narcotrafficante funziona alla grandissima, e non si lascia sfuggire nessuna mossa di chi gli sta attorno. SI assiste ad una progressiva messa a fuoco della vera anima del signore della droga colombiana. Da eroe dei poveri idealista e magnanimo, Escobar si rivelerà un cinico uomo d’affari, pronto a sfruttare come pedine i suoi uomini e chi diceva di amare, dispensando morte senza scrupoli e alla minima occorrenza. La sua parvenza di welfare filantropico che elargisce all’inizio si rivela una mossa per garantirsi l’appoggio dell’opinione pubblica e per poter rilanciare un’offerta al governo colombiano per aver salva la pelle. Il film procede liscio come l’olio, senza intoppi o passaggi cervellotici, restituendo il clima di connivenza fra autorità e criminalità vigente ai tempi descritti nel film, anche se è bene ricordare che il vero protagonista è un altro. Lo sguardo attraverso cui il regista compie l’epopea di Pablo el Patron è un altro, ed è quello di un ragazzo un po’ fin troppo ingenuo e sprovveduto, che non si accorge di nulla fino all’amara scoperta dei loschi maneggi dello zio acquisito. Il quadro ne esce sminuito in parte nella descrizione globale degli avvenimenti, ma forse questo aspetto costituisce la novità del genere biografico cui si inscrive.
La prova degli attori ne esce promossa a pieni voti. Josh Hutcheson dimostra di essere cresciuto dopo la saga di Hunger Games, anche se lascia ancora abbondanti margini di miglioramento. Il vero mattatore è naturalmente Benicio Del Toro, che regala il suo sguardo languido e ammaliatore dall’inizio alla fine, regalando al cinema una maschera di doppiezza e spregiudicatezza che rimarrà a lungo nell’immaginario collettivo. Brava anche la comprimaria Claudia Traisac, alle prime armi ma che dimostra di sapersi muovere sulla scena.
Concludendo, se desiderate una narrazione dell’epopea malavitosa che travalichi il semplice spettacolare e l’azione patinta, come invece potrebbe essere la serie dedicata ad Escobar ora disponibile su Netflix, quale è Narcos, questo è il film giusto per i vostri gusti. Vale davvero la pena di recarsi in sala. Con un solo consiglio : diffidate dello zio ricco.
Enrico Frasca