La Madonna torna al santuario: il rito e le origini
«Alzàtev fìgghie sante, alla Madònne. Alla Mamma nòste, alla Bella nòste» (Alzatevi figli santi, alla Madonna. Alla Mamma nostra, alla Bella nostra). Uno squarcio lamentevole e intenso nel cuore della notte, quello della Zia Emilia, una fragile vecchietta che fino agli anni Cinquanta del secolo scorso ha rischiarato le notti di tutti quei lunedì di settembre (poi di ottobre) così mesti per il ritorno dell’icona tardo-duecentesca della Madonna di Ripalta alla cappella sull’Ofanto, dopo la permanenza di sei mesi, dal sabato in albis, nella cattedrale cittadina. Un rito ancestrale radicato nella più autentica civiltà contadina di Cerignola, che almeno dalla metà dell’Ottocento – se si vuol dar credito allo storico locale molfettese Saverio La Sorsa (1848), al canonico don Luigi Conte (1858) e a Maria Conte, prima donna di Cerignola a conseguire una laurea (1908) – conferisce alla devozione popolare e al culto mariano per l’icona bizantina, con il suo trasporto emotivo, il significato antropologico del senso di appartenenza alla comunità, rinforzandone l’identità nei valori tradizionali, familiari e civici di un popolo per buona parte composto di contadini.
Erano quelli gli ultimi anni del dominio borbonico in Capitanata, come in tutte le Provincie del Regno, quando le insofferenze delle masse incalzate dal bandito locale Nicola Morra nei confronti del giogo tirannico si univano agli aneliti alla libertà e ai fremiti rilevati nella cronaca popolare. Erano gli anni in cui la città applaudiva ad una inedita e irripetibile proposta dell’esattore Giuseppe Cannone, che al Decurionato municipale si dichiarava disposto a rilasciare i proventi di ritenuta – 1800 ducati, il guadagno previsto in un biennio della sua carica – ad un apposito comitato affinché s’impegnasse a dare inizio alla costruzione di un teatro, lo stesso che poi accoglierà Pietro Mascagni alla guida di uno dei complessi bandistici più rilevanti della regione, a condizione che l’impresa fosse portata avanti senza le eccessive, sin da allora, formalità amministrative.
Erano gli anni in cui masse di braccianti agricoli immigrati, per la maggior parte provenienti dalle zone andriesi e più in generale dall’area barese, popolavano il rione della ‘Cittadella’ – soccorso in quegl’anni dall’opera evangelizzatrice e sociale del parroco della Chiesa di San Domenico, il venerabile don Antonio Palladino – e l’area a sud, tra il Piano delle fosse del grano e la Villa comunale ‘Umberto I’, appellata ‘senza Cristo’ da una classe media esigua, che non disponeva di strutture socio-produttive dinamiche e di consistenti presenze borghesi e mercantili ma che tendeva a marcare i quartieri fino a formare una sorta di anticittà.
In questo crogiuolo di fatti e contesti cittadini, tra Otto e Novecento, s’incastra da un lato la forza dirompente del sindacalista Giuseppe Di Vittorio, che vuole smantellare l’isolamento dei braccianti superando i confini della campagna per recuperare l’unità con il socialismo urbano di molte città pugliesi, dall’altro quella ancor più irrazionale e primitiva della devozione mariana, che ha origini arcaiche e come tale permane e resiste in una più o meno equilibrata – benché inconsueta – sintonia con la religione colta e ufficiale, operando anzi una sorta di riplasmazione in chiave più o meno folklorica del fenomeno religioso, che non ha snaturato la sacralità del culto e non ha creato una contrapposizione di classi sociali per il fatto che la devozione all’icona di Ripalta è diventata comunitaria, trasversale a tutti i ceti ma imprescindibile nel mondo contadino, bagnato di lacrime ma religiosamente sensibile.
A distanza di molti anni la pietà popolare, benché risenta della rottura nella trasmissione generazionale della fede cristiana nel popolo cattolico, conserva più o meno inalterati i fragili caratteri della tradizione: il corteo processionale è caratterizzato da presenze paradigmatiche, come ad esempio quella delle due arciconfraternite dell’Assunta e dell’Orazione e morte: la prima dal 1825 mantiene il diritto di scortare la Madonna di Ripalta, protettrice di Cerignola da 160 anni (22 settembre 1859), sia alla partenza che al ritorno dalla cappella rurale sul fiume Ofanto e anche in occasione della processione dell’8 settembre, festa patronale; la seconda, invece, la più antica aggregazione laicale di cui si ha notizia in città, comunemente chiamata del Purgatorio, dal 1582 attiva accanto all’attività dei Padri Gesuiti. Altra presenza caratteristica nel corteo processionale di ottobre e aprile è quella ininterrotta e caratteristica della ‘bassa banda’, una piccola formazione bandistica composta da percussioni (piatti, tamburi rullanti e grancassa) e da flauto traverso o ottavino.
Sono i fraseggi particolarmente espressivi, ridanciani e le invenzioni musicali folkloristiche del flauto a destare meraviglia e a catturare in modo quasi magnetico nonni e nipotini, da decenni, con sottolineature ritmiche e cadenzate che, quasi a ritmo di valzer (perciò, nel gergo, gli elementi sono chiamati ‘valzaneise’ e non come alcuni spiegano, indicando l’etimo erroneamente da Valenzano), accompagnano il quadro trasportato in città a spalla tra ali di folla e in campagna tra filari di vigneti e ulivi fino alla sua storica dimora, la cui presenza cenobitica di monaci basiliani, giunti probabilmente sulle coste pugliesi sin dal IX sec. d.C., al tempo delle persecuzioni iconoclaste in Oriente, l’ha resa caposaldo del culto di una delle più belle Madonne con bambino di tutti i tempi.
Michele Orlando