Quei 30 secondi da Instagram stories dove il protagonista è il pubblico
Con un atteggiamento mutuato dalla gestualità maschile, una ragazza si avvicina alla sfidante con fare minaccioso, chiedendole spiegazioni di alcuni commenti, a suo dire evidentemente fuori posto. D’altro canto, l’altra ragazzina resta impassibile con uno sguardo talmente glaciale da sembrare la più grande delle offese. Tutto intorno, compagni e compagne felici per quella resa dei conti che di lì a breve sarebbe capitolata a terra tra schiaffi, calci, pugni. Le hanno cinturate per segnare fisicamente il perimetro entro cui avrebbero dovuto suonarsele.
Uno dei presenti intima silenzio, per godersi a pieno quella sfida che correva il rischio di essere dissipata tra commenti o perfino da timidi inviti a desistere. Poi la ragazza vestita in nero chiede conferma di qualcosa ad un suo amico del pubblico non pagante e, probabilmente rassicurata, sferra il suo primo schiaffo. Ne nasce una rissa a favore di telecamera. Trenta secondi, il tempo di due instagram stories, perché anche la violenza in questi tempi pazzi riesce ad adattarsi automaticamente all’algoritmo.
La teatralità della scena sembra venuta fuori da un set. Una sfidante vestita di bianco, l’altra di nero; la cerchia di amici diventa un vero e proprio cerchio di amici per delimitare il perimetro del ring; almeno tre persone con il telefono in mano per riprendere la rissa da più prospettive e da più inquadrature. C’è chi imbraccia l’iphone, chi invece a braccia conserte osserva l’ondata di schiaffi e pugni incrociando le braccia, imperturbabile, mentre le due rivali rovinosamente si rotolano a terra tra invettive.
Un ragazzino appoggia il suo gomito sulla spalla dell’amica per guardare lo spettacolo, ma senza trasporto, né sorpresa, né divertimento o preoccupazione. Il cerchio si allarga solo quando la traiettoria delle due, accapigliate, si avvicina agli spettatori, che fanno qualche passo indietro, senza intervenire, senza separarle.
Un altro ragazzo si preoccupa di salvare la sua amica spettratrice mentre le due cadono ai suoi piedi rischiando di travolgerla. Solo a quel punto, quando si rotolano a terra, si sente un “Madù”. L’unico gesto di sorpresa che ad un tratto si riveste perfino di umanità, che viene cancellata allorquando una presente urla “dai dai”, perché la sua beniamina pareva soccombere nello scontro.
Un secondo, un centimetro. Sono bastati solo un secondo e un centimetro perché una rivale non colpisse, con un calcio in faccia, la sua nemica sdraiata al suolo. E quella furia tra le due si è interrotta all’improvviso.
È bastato solo un timido accenno di un intervento esterno, di una compagna che ha solamente allungato il braccio, senza frapporlo tra le due, per fermare quella violenza cieca. Come se le due ragazzine non aspettassero altro che qualcuno le dividesse, che suonasse il gong. È bastato un “Oh” e un braccio alzato per fermarle, per fare in modo che si ricomponessero e che ritornassero in loro.
“Leva, leva, leva”, dice un’altra ragazza a chi, in quel momento, stava girando il video poi diventato virale. Per non essere scoperti, forse, per aver girato quell’immagine clandestina da far vedere agli amici di scuola. “Leva leva leva”. Un minuto esatto. Pronto a passare nel dimenticatoio dopo 24 ore, travolto dallo scroll compulsivo e da altre instagram stories.
DA VOMITO.
Il punto è proprio questo perché infatti la notizia di per sé non fa scalpore (due ragazze o due ragazzi che si picchiano sai che novità) ma fa scalpore il fatto che trenta ragazzini non hanno mosso un dito anzi incitavano all’odio coi telefoni in mano
Può succedere
Le future generazioni. Yak