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Cronaca

L’editoriale di Paciello: “”La legalità  perdente e l’assedio delle città “”

L’editoriale del direttore de L’Attacco, Piero Paciello, è stato pubblicato venerdì 27 maggio e contiene diversi spunti di riflessione sul tema “”mafia&politica””. Cerignola, spiega il direttore, rivive quanto successo nel 2004 a Foggia con  “”l’ingresso della criminalità  organizzata nel gioco economico che passa per appalti e forniture””.

 
 
L’editoriale del 27/5/2016
La legalità  (perdente) e l’assedio delle città 

La principale porta d’ingresso delle mafie nella gestione delle risorse pubbliche risiede nella politica e nell’amministrazione locale, con le forme tipiche della violenza, dell’intimidazione e della corruzione””. La relazione della commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi, di prossima pubblicazione, è lo spaccato inquietante di un attacco concentrico delle mafie al sistema degli enti pubblici territoriali, con tratti quasi emergenziali per la nostra democrazia e profili di responsabilità  di specialisti e mestieranti dei movimenti a difesa della legalità .
Se ci spaventa la parola mafia cambiamo nome. Così parliamo non solo di Monte Sant’Angelo ma di Capitanata. Invece di mafia, oligarchie. Invece di mafia, comitati d’affari. Invece di mafia, consorterie fondate sul censo di originaria o fresca accumulazione. Invece di mafia, la vischiosa forma di potere della post modernità : capitalismo di relazione, simulazione democratica, tecnocrazie equivalenti e controllo/manipolazione della pace sociale.
La quasi totalità  delle amministrazioni locali della provincia di Foggia è condizionata da quel viluppo gelatinoso talora prossimo a dinamiche mafiose. Lo è quando gli stessi 6-7 burocrati (solo burocrati?) presidiano uffici tecnici e commissioni di gara in gran parte degli enti locali del Gargano e dell’Alto Tavoliere; lo è quando il ciclo dei rifiuti è infestato di imprese senza imprenditori che vengono dall’area del napoletano; lo è quando il sistema delle forniture di beni e servizi s’incardina in logiche di monopolio o cartello; lo è quando il mercato del lavoro è piegato a imperativi di consenso elettorale; lo è quando il ceto politico è indifferente o interscambiabile.

A occhio e croce (e al netto della storicità  degli insediamenti criminali), quando flussi di finanza oscura gravano di più, meticciando irrimediabilmente le altre componenti “ assemblee elettive, dirigenze comunali, sistema degli interessi organizzati, area del bisogno sociale -, si è in prossimità  di snodi mafiosi. E’ il Potere vero.

Cerignola come Foggia nel 2004

Non la politica politicante, gli avvitamenti di carriera, i drammi scescipiriani alla Franco Metta, primo cittadino di Cerignola. Mi faranno “ ha arringato la sua folla domenica scorsa – le peggiori porcherie, mi faranno le peggiori sporcizie, mi faranno le cose che voi non potete nemmeno immaginare. Io lo so e sono tranquillissimo, non mi tremano mani, polso, meno che mai non mi trema la mente e il cuore¦ Io sono tranquillo, ho solo paura della vostra sofferenza. è il mio tallone d’Achille. Ho paura di veder piangere i miei figli. Il giorno in cui vi vedrò piangere per colpa mia, mi dimetterò un secondo dopo””. Solo che non è Shakespeare o la messinscena della solitudine del Potere.
E’ una disperata dissimulazione, una tecnica di nascondimento, l’artificio retorico che banalizza il tentativo, a Cerignola, di ingresso della criminalità  organizzata nel gioco economico che passa per appalti e forniture. Quello che accadde a Foggia in maniera pianificata nel 2004. Uno storico imprenditore come Donato Calice lo ha fatto capire in maniera chiara: sono saltate le regole del gioco, siamo in un territorio assolutamente inedito. Calice è uno scafatissimo lobbista, ex dirigente della tecnostruttura poi potente edile, prontissimo nell’indirizzare e (poi) garantire le scelte della pubblica amministrazione, trasversale e ubiquo rispetto alle logiche del consenso politico. Destra o sinistra al governo, lui e i suoi legittimi interessi ci sono stati sempre. Oggi, spiega, ci sono pressioni che arrivano direttamente da settori grigi della società  di Cerignola. Donato Calice è a rischio come Tommaso Sgarro, candidato Sindaco del Pd, che ha investito ufficialmente il Prefetto, in due distinte circostanze, del dettaglio delle operazioni controverse. Per il Sindaco invece, in una sorta di coazione a ripetere o impudico riflesso pavloviano, gli infami stanno sputtanando la cittࠝ.
Parla così, come un Vito Ciancimino fuori tempo massimo, come se non ci fossero alle spalle due repubbliche finite nella penombra dell’anti Stato. Un peccato per Metta, un tradimento della storia del movimento di base che lui ha portato alla guida di Cerignola. Qui non è in discussione l’evanescenza dell’azione di governo, lo scipito elan progettuale, l’inconsistenza del gruppo dirigente cicognino e l’epica dell’uomo solo al comando “ tutte le contraddizioni della mancata fase 2 del civismo della città  ofantina -; qui parliamo di spesa pubblica che s’incatrama (del nero) di finanza in cerca di allocazione e circolazione. E che spara, se serve. Non ci sono risposte per ora. Davanti al suo popolo, il primo cittadino biascica di interferenze e/o ritorsioni di pezzi dello Stato contro di lui, allude a fantasmagorici complotti politici, si scherma dietro connessioni sentimentali profonde. Un messianismo senza domani: lui, il suo popolo e in mezzo nulla. Nulla di opinione pubblica, nulla della razionalità  discorsiva della dialettica istituzionale, nulla della terzietà  critica e riflessiva di ceti medi e libere autonomie.

L’esperimento di Monte

Senza società  di mezzo, senza gesti di riappropriazione, senza ripartenze di società  civile, vincono le oligarchie e poi, all’occorrenza, le mafie. Non c’è hybris o volontà  di potenza o disordinata energia o compulsioni social che tengano. Perchè non è vero che tutto è perduto. Non bisogna temere le energie che si liberano in reazione a fenomeni degenerativi della cosa pubblica. Lo dimostra il caso Monte Sant’Angelo dove il Consiglio comunale è stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Nella città  di San Michele non sono maturate pulsioni o revanscismi antisistema, cortocircuiti o rattrappimenti dell’ethos pubblico, distruzioni di comunità . Tutt’altro. Lì le associazioni, la Chiesa, i mondi culturali e i singoli hanno chiesto più Stato, più efficacia istituzionale, più politica. Hanno incalzato irritualmente i commissari a fare i Sindaci, a produrre discontinuità  radicali nelle scelte di governo (non solo a ristabilire regole del gioco e certezza del diritto). Sindaci non commissari, magari da convocare (per spiegare un titolo che non è piaciuto) in pubblici dibattiti, senza ostruzioni e farraginosità  dei vecchi circuiti di rappresentanza della domanda sociale.
Naturalmente le Istituzioni non si convocano, ma lo Stato, con la faccia dei suoi emissari, ha risposto presente, ha interloquito, non si è sottratto al confronto anche aspro, ha riavviato il dialogo sociale interrotto. A Monte, si è vissuto da settembre 2015 in poi, un singolare esperimento di democrazia partecipata, non ipotecato dal notabilato trasformista e complice degli ultimi trent’anni. Un caso di studio da un lato, un’eredità  indiscutibile (quando lasceranno Cantadori, Monno e Giangrande), dall’altro: la chiusura del rubinetto della spesa pubblica per le imprese colluse o direttamente mafiose. Non bisogna aver paura del popolo. Non è detto che non vinca se a sfidarlo sono populismo o èlites neoilluministe. A Foggia, l’antimafia sociale è stata affidata a specialisti (e talora mestieranti, sempre per citare Rosy Bindi) che sapevano e hanno continuato a sapere poco delle dinamiche profonde della città . Pieni di sè, giacobini a oltranza nella compulsiva riduzione della vicenda comunitaria a procedura penale, hanno pensato che la scorciatoia giudiziaria assumesse in sè, esaurendola, la complessità  mafiosa della Societࠝ foggiana.
Magari accompagnandola con una spruzzata di pedagogia d’urto alla Don Ciotti. Tra le eredità  del ventennio inutile della seconda Repubblica c’è anche questo: una cultura della legalità  boriosa, astratta e impotente. Senza biografie e dolore. Senza analisi e contesto. Senza imprenditori come Massimo Vincitorio o Giovanna Parlante che, dopo bombe e avvertimenti, ritornano il giorno dopo al lavoro e nessuno sa più di loro. Senza l’implosione del modello di organizzazione sociale dominante, le disuguaglianze e disintermediazioni crescenti, il fallimento paradigmatico di Amica e i patti di Vela 2. Senza la sparizione di due (tra un po’, tre) generazioni e le solitudini nelle correnti del risentimento collettivo. Venti anni così. Non c’era più il mondo di ieri e in più ti ammazzavano un Giosuè Rizzi come in Sicilia o mettevano a ferro e fuoco (letterale) la città  come nell’assalto al caveau dell’Istituto di Vigilanza al Villaggio Artigiani. Lo Stato ora c’è per fortuna.

L’informazione

Il paradosso dell’assalto ai municipi nello stadio terminale della crisi del partito unico della spesa pubblica apre scenari ancora più drammatici, mette a rischio la densità  sopravvissuta delle democrazie del mezzogiorno e interroga senza sconti sulla nuova forma del potere di cui l’Attacco scrive da sempre. L’informazione è arrivata tardissimo a capire le cose degli ultimi vent’anni. Prima ha asciugato la guerra tra clan del capoluogo a contesa introflessa e specialistica; poi ha eroicizzato, senza sangue e merda, i primi martiri; infine non ha capito più niente. Citazione d’obbligo: quando il governo/potere ha paura del popolo, c’è libertà . Prima però, c’è informazione.
Piero Paciello
 
 
 

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